Nel 2014 chiude per sempre L’Ora della Calabria. Pubblichiamo la testimonianza di chi, in quel giornale libero, ci lavorò fino all’ultimo istante, lottando e barricandosi in redazione. Arrendendosi soltanto quando fu chiaro che “nessuno avrebbe vinto per noi”
14 MAGGIO 2018
REGGIO CALABRIA – “Ma tu pensi che esista veramente sta libertà di stampa, che davvero abbia senso quello che state facendo?” Domande del genere ci hanno tenuto compagnia nelle lunghe notti di occupazione della redazione de L’Ora della Calabria. Domande che facevano rumore esattamente come quel server sempre acceso che riempiva l’aria di un calore malsano e come il silenzio di chi non dava risposte a un gruppo di giornalisti che, volenti o nolenti, hanno scritto un pezzettino della storia del giornalismo di questo paese. Non è durata a lungo quella prova di resistenza e di autonomia. Ma molti di noi, molti di quelli che avevano costituito la colonna vertebrale di uno dei giornali più importanti mai nati in Calabria e forse in Italia, sono affondati con quella gloriosa nave che, tra alti e bassi, ha solcato il mare dell’informazione per otto anni.
Il coraggio e le minacce
Si chiamava Calabria Ora quand’è nato e anch’io, all’epoca giovane di provincia convinta che il giornalismo potesse cambiare il mondo, sono nata con quel giornale. Che è cresciuto, maturato, ha sbagliato esattamente come un organismo vivente che cercava spazio nel proprio ambiente, quello dell’informazione. Con le sue contraddizioni, le sue due facce della medaglia, il bene e il male. Da un lato tanti giornalisti che hanno sacrificato la propria vita privata sull’altare dell’informazione, omaggiati dalla ‘ndrangheta di minacce di morte, pallottole, taniche di benzina e roghi capaci di ingoiare auto intere per restituire paura. Dall’altro editori che hanno dovuto dar conto alla giustizia delle loro azioni, direttori che si sono passati il testimone, come si passa di mano in mano una pietra che scotta, una cosa che può far bene e al tempo stesso malissimo.
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La telefonata
Questa era Calabria Ora, fino al giorno di quella telefonata. La telefonata del “cinghiale ferito che ammazza tutti”, quella del “caccia ‘ssa cazz’i notizia”. Era la notte tra il 18 e il 19 febbraio 2014, all’epoca il direttore della testata era Luciano Regolo, che traghettò quel barcone da Natale alla sua passione, dalla quale non ci fu alcuna resurrezione. Al telefono, da un lato, c’era Umberto De Rose, stampatore del giornale. Dall’altra Alfredo Citrigno, editore del quotidiano. Il primo chiedeva al secondo di rimuovere una notizia che dava fastidio ad Antonio Gentile, senatore della Repubblica, di lì a poco sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti del governo di Matteo Renzi. La notizia riguardava un’indagine sul figlio del politico, poi archiviata, che al “cinghiale” – Gentile, appunto – procurava non poche noie. Così De Rose si era prestato alla causa, dando quel consiglio ‘amichevole’ al giovane Alfredo. La telefonata venne ascoltata e registrata in auto da Regolo, che si oppose alla modifica di quell’edizione.
Il ‘guasto’ provvidenziale
Ma un provvidenziale ‘guasto’ alla rotativa risolse tutto. In realtà quel guasto, denunciò il pomeriggio successivo il direttore in diretta streaming, non c’è mai stato. Una convinzione che anche la Procura di Cosenza ha fatto propria, indagando e ottenendo il rinvio a giudizio per De Rose, tutt’ora a processo con l’accusa di violenza privata. Ne nacque una battaglia per la libertà di stampa. I giornalisti si ribellarono, resero nota la vicenda che rimbalzò di quotidiano in quotidiano, dalla Sicilia al Trentino, sbarcando pure all’estero sulle principali testate. Ogni lingua del mondo raccontava quella vicenda obbrobriosa, incitando i giornalisti a continuare la propria battaglia. Il giornale, ogni giorno, pubblicò pezzi di quella vicenda: gli ‘screenshot’ dei messaggi di quella notte, il resoconto dettagliato della telefonata, aggiornamenti sulla notizia che dava fastidio e il carrozzone di solidarietà e contrarietà che ne scaturì.
La vittoria dell’informazione libera
Una lotta ai fianchi, che mirava a indebolire il nemico. Fino a quando Gentile, pressato dai big del giornalismo italiano e dalle invettive lanciate a mezzo talk show, non decise di dimettersi. Per noi, quella, fu una vittoria. Fu la conferma che quel lungo viaggio iniziato otto anni prima aveva avuto un senso, che il giornalismo poteva ancora fare e dire qualcosa. Che quel sogno che avevo avuto da bambina, quando credevo che anche questo mestiere potesse plasmare il mondo per renderlo un posto migliore, non fosse una sciocchezza.
La corsa verso la fine
Da lì, però, iniziò anche la lunga corsa verso la fine, verso un muro che in lontananza ci attendeva per sbarrarci la strada definitivamente. Avevamo vinto la battaglia, certo, ma la guerra era una roba per grandi, per chi ha le armi e le sa usare. Noi eravamo disarmati: avevamo nelle fondine soltanto le parole. Così L’Ora stava per chiudere. Era una possibilità che già qualche mese prima – quando l’editore propose al cdr del giornale, di cui facevo parte, un piano di tagli, lacrime e sangue per risanare i conti – aveva iniziato a farci tremare i polsi. Era un giornale di privilegiati e di pezzenti quello che amavamo: giornalisti che facevano il loro lavoro pagati in ossequio al contratto nazionale del lavoro giornalistico, giornalisti che invece avevano firmato un pezzo di carta che non consentiva loro di definirsi tali. Gente che ufficialmente vestiva i panni del poligrafico ma che per pochi spiccioli si portava sulle spalle intere redazioni dall’alba a mezzanotte. E nonostante questo, ci si chiedeva sacrificio, ancora sacrificio.
Quei debiti (all’improvviso) insanabili e l’occupazione
Dopo l’Oragate, come divenne poi famosa la vicenda, i debiti divennero magicamente insanabili. Specie quelli nei confronti di De Rose, sempre lui, che aveva sempre stampato il giornale gratis. Trucchi dell’editoria che, alla fine, riuscirono a realizzare l’illusione più bella di ogni mago: far sparire le cose. Nel nostro caso quella cosa era proprio il nostro giornale. L’editore, dopo settimane di botta e risposta con il direttore e i giornalisti, decise di gettare la spugna, annunciando la chiusura. Nessuna possibilità alternativa: quel giornale era una barca di debiti ormai piena d’acqua e pronta ad inabissarsi. La palla passò in mano a un liquidatore, che iniziò a portarci via pezzo dopo pezzo la redazione dentro la quale, quasi all’unanimità, decidemmo di barricarci. E si torna all’inizio di questa storia, l’occupazione, ultimo capitolo di una storia amara e gloriosa. Una battaglia che durò settimane: i giornalisti presidiarono quel posto giorno e notte, stringendo le mani di chiunque volesse salire sul palco per darsi un tono o per sostenerci davvero. Politici, artisti, giornalisti, scrittori, tutti pronti a mettersi in posa davanti ai flash sempre abbondanti.
La resa
Tre lunghi mesi di resistenza, durante i quali molti, uno dopo l’altro, decisero che la battaglia era persa e che nessuno avrebbe mai vinto per noi. Così è finita L’Ora gloriosa dei giornalisti in Calabria. Con le luci di una redazione spente per sempre e i potenti tutti ancora al loro posto.